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Napoli Nomade

"Sento talmente che la storia delle persone
è come la storia del grano,
se non si è seminati nella terra per germinarvi,
succede che si è macinati per diventare pane.”

Vincent Van Gogh
 



Un’anima fotografica
di Felisia Toscano

Due bimbe dietro ad un vetro sorridono al gocciolìo della pioggia. Un’autentica malinconia scivola in quel sorriso respingendo qualsiasi rassegnazione all’infelicità, Maria cerca la bellezza e non sente ragioni. Una fotografia, due, tre… infinite.
Dietro i suoi scatti non troviamo solo lo sguardo di una donna, ma un’anima irrequieta e silenziosa che realizza un quadro di emozioni visivamente palpabili.
La fotografia di Maria è una ricerca continua, un’immaginazione incessante anche nelle realtà più deboli dove forza e fragilità si contrappongono e si completano. Gioca e fugge dalla sua fotografia, è un amore viscerale che non ammette distrazioni, un legame sugellato da uno scambio di emozioni, da un mondo racchiuso in una cornice che precipitando si tuffa in mille scatti ancora da realizzare. In quest’amore le frontiere non esistono, nemmeno i confini della creatività, Maria smuove i fili di una solitudine che esiste per cogliere le sfumature, i suoni e, la poesia che i suoi occhi partoriscono in immagini.
La sua anima è guidata da un’indisciplinata immaginazione che la conduce alla ricerca continua ed incessante del prossimo haiku fotografico da realizzare, sempre in movimento, in fuga da un sogno e prigioniera di illusioni. Maria fotografa quello che sente non quello che vede, per questo nelle sue immagini troviamo sensibilità, poesia, sentimento, ispirazione alla letteratura, al cinema, alla musica, all'arte in ogni sua forma. Ad accompagnarla, a guidarla, a trascinarla c’è un fuoco che arde, una gioia ed una sofferenza che sono un tutt’uno con i suoi occhi, per questo non riesce a fare a meno di fotografare perché attraverso la scatola magica si avvicina alla vita, la cattura e la custodisce per paura di perderla. La fotografia di Maria è una ricerca della bellezza nascosta nella quotidianità della sua sopravvivenza, è paura e poesia che cercano di fiorire nella semplicità delle piccole cose.
Sembra che dalle sue fotografie sgorghino le lacrime che sempre trattiene, le sue immagini sono dolci e delicate. Ogni volta che realizza una fotografia celebra e accarezza la vita che ama, la bellezza che conosce e le ingiustizie che sente bruciare sulla sua pelle. La luce per Maria è poesia.


Scatti in controluce da una vita marginale
Un taglio decisamente nuovo per parlare fotograficamente di "Nomadi", è quello scelto da Stefano Fittipaldi dell'Archivio Parisio. A interpretare un tema che poteva scivolare nella retorica o nel déjà-vu, sono stati designati due nomi giovani della fotografia, Giulio Piscitelli e Maria Di Pietro. I ventotto scatti, quattordici per ciascun fotografo, saranno esposti nella mostra "Napoli nomade" nella sede dell'Archivio Fotografico Parisio, sotto i portici di Piazza Plebiscito. Fittipaldi, egli stesso esperto dell'obiettivo e rigoroso selezionatore, sostiene che «attraverso gli scatti dei due reporter si tenta di ricordare e conoscere meglio le comunità nomadi del circondario partenopeo». La data di inaugurazione della mostra cade in effetti a un anno esatto dallo sgombero del campo nomadi di Ponticelli provocato dalla furia degli abitanti del quartiere che consegnarono alle fiamme l'accampamento. Dai campi nomadi di Giugliano, a quelli nell'immediata periferia di Napoli, è sorprendentemente innovativa la lettura che danno del tema i due fotografi: Piscitelli laureato a Suor Orsola e in forze all'agenzia fotografica Controluce, più interessato al reportage; più intimista invece Maria Di Pietro, uscita dall'Accademia di Belle Arti. Lavorando sul formato del 30 per 40 per la stampa digitale (le foto sono raccolte nel catalogo edito da Paparo) sono riusciti anche a staccarsi dalle passate rappresentazioni, regalando Piscitelli una serie di drammatiche inquadrature - il paragone cinematografico non è casuale - della rivolta contro i nomadi e, Di Pietro riuscendo a conferire una vena lirica portatrice di speranza anche a paesaggi estremamente malinconici, come sono quelli periferici riservati e poi negati alla marginalità. Narrativa la linea di Maria Di Pietro, che entra con rapidi scatti nelle vite dei Rom, ottenendo immagini di rara bellezza, come quella della piccola nomade bionda che cammina nell'acqua dopo che l'incendio dell'intolleranza si è estinto. Lavori che si integrano e completano. «Mi sembra doveroso dare spazio ai nuovi fotografi - spiega Stefano Fittipaldi - anche per fare in modo che il nostro archivio storico non sia soltanto riferito al passato.»
Stella Cervasio articolo su Repubblica del 10 maggio 2009


“Se vogliamo, un aspetto che ritengo molto importante è l’idea di risveglio presente nel marxismo: Risveglio del proletariato, Risveglio del popolo. Oggi negli Stati Uniti [come in Italia, del resto"> vediamo invece gli schiavi votare per i padroni! E li vediamo considerare questa una forma di libertà e democrazia. Votano, quando lo fanno, a favore del sistema che li reprime”.
James Hillman

SULLA FOTOGRAFIA DEL VOLTO UMANO
di Pino Bertelli

La fotografia dal volto umano non si insegna, si vive. La grande fotografia è ciò che disvela o denuda e contribuisce alla riconoscenza e al rispetto dei diritti umani calpestati dalle democrazie consumeriste e dai regimi totalitari. Fotografare è cercare la bellezza e la verità, si tratta di cambiare se stessi per cambiare l’ordine del mondo. Le fotoscritture che fuoriescono da questa pedagogia libertaria del comunicare, affermano che ogni autoritarismo è illegittimo perché reprime il dissenso di quanti si richiamano alla conquista del bene comune. Ai nostri giorni ci sono insegnanti di fotografia industriale, ma non fotografi. La tecnica fotografica s’impara in due giorni (specie se si è felicemente ubriachi in una taverna di porto o si è fatto l’amore su una spiaggia d’inverno e buttato la fotocamera sulla sabbia a far compagnia ai granchi), per conoscere il senso della luce e la tenerezza del cuore non bastano una vita.
I filosofi (Epicuro, non Platone) prima degli schiavi in rivolta di Spartaco, avevano compreso che la fotografia che conta s’illumina al fuoco delle idee scatenate dall’immaginazione del vero... s’accosta all’assertorio dei vessati e rifiuta l’apodittica della civiltà spettacolare... nella religione mercantile del progresso si consumano i sorrisi nelle bare di chi non ha voce né volto, la vita è sottomessa ai dogmi della ragione imposta, lo “splendore” della miseria si rinnova ogni mattino e apre le carceri al dissidio. Gli impoveriti, le minoranze etniche, le persone di colore, i migranti o fuoriusciti da guerre insensate (provocate dai grandi interessi finanziari/politici)... conoscono sulla loro pelle (sulle loro morti) l’acido ipocrita delle democrazie e Mark Twain, da qualche parte, ci ricorda che — “per bontà divina, nel nostro paese abbiamo tre cose indicibilmente preziose: libertà di parola, libertà di coscienza e l’accortezza di non praticarle mai” —. Gli uomini arroccati al potere muoiono a causa di ciò che aveva assicurato il loro successo: lo stile da cencialoli. Quando il paradosso che governa è messo al bando non si evita la forca se non con il suicidio o la fuga nelle fogne. Ogni sopruso è indelicato e la sommatoria dei soprusi è il letamaio dell’umanità. La liquidazione dei partiti deve comportare quella dello stile (del linguaggio) con il quale hanno degradato individualità e memorie storiche... le parole, le immagini, i suoni, perfino le bestemmie subiscono lo stesso destino degli imperi... si disgregano nell’affettazione della menzogna e i rettori della menzogna prolungata — responsabili dei nostri eccessi — sono destinati alle esuberanze insorte del giudizio plebeo (senza dimenticare mai che a un dio che crolla succede un altro dio che lo sostituisce). Il disinganno sta nell’indignazione. Coloro che hanno trovato certezze e risposte a tutto, accettano con gioia gli effetti della tirannide sulla fatalità. Una realtà esiste e si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione che sgretolano l’indecenza di esistere.
Le scritture fotografiche di Maria Di Pietro (non importa siano argentiche, numeriche o Polaroid) sono tutte attraversate da una malinconia poetica che le deposita in ciò che è autentico, dove l’unico tribunale è il sorriso di un bambino, e il sorriso di un bambino non si può comprare. I viaggi, i reportage, gli haiku, i volti, i bambini Rom della fotografa napoletana esprimono (nelle loro differenze estetiche e nervosità di studi accademici mai definitivamente abbandonati) un viaggio interiore e un percorso artistico verso le regioni della realtà, s’intrecciano a categorie sociali, etiche, morali e rappresentano l’uomo/la donna in relazione al potere economico e politico che li sovrasta. Nelle sue immagini c’è sempre una sensazione di inadeguatezza o di sofferta fraternità che la fotografa ricompone nelle inquadrature (an- che slabbrate) e mostra che le umiliazioni sono vincenti quando si tratta di eliminare i più deboli. Ma il diritto all’identità non può essere compiutamente soppresso... quando le persone si sostituiscono alle maschere, si brucia il sipario e la commedia è finita.
Questa scrittrice di immagini. Addentrarci nel fare fotografia della Di Pietro significa andare a comprendere che l’educazione alla fotografia di strada comincia nel reparto degli incurabili, nella cultura del disturbo cronico (détournamento di James Hillman) che implica il sovvertimento dei valori dati e restituisce all’amore verso l’altro il principio o il risveglio del rimosso o del dimenticato, che sono al fondo di tutte le disuguaglianze sociali.
Nelle fotosequenze della napoletana c’è sempre il sogno di qualcosa che incrina l’ingiustizia e l’oppressione, e tutti coloro che l’intossicazione informatica “dipinge” come brutti, sporchi e cattivi riemergono dalle tenebre del fanatismo, razzismo, terrorismo della benevolenza o dell’ideologia e ritornano ad essere persone. In un’epoca dominata dalle grandi falsità, il compito della fotografia che vale è quello di denunciare le verità celate... soltanto le fotografie del vero diventano ad un tratto sacre... tutto quello che so l’ho imparato dagli svantaggiati, dai folli, dai bambini con gli occhi curiosi che tiravano i sassi alla luna in un Maggio fantastico... ogni dolore è una vicinanza e solo una cultura dell’inclusione e una politica dei diritti umani possono sconfiggere il disprezzo e l’indifferenza delle teste di legno che albergano nei parlamenti. Chi uccide la bellezza odia la vita e l’arte di gioire è all’inizio di ogni sovranità popolare.
SULLA FOTOGRAFIA NOMADE
La fotografia nomade o dei diritti umani della Di Pietro (quella che più ci attanaglia studiare) agisce ai bordi dell’infelicità, più ancora, infonde alla sofferenza senza via d’uscita, il respingimento della rassegnazione... il suo immaginale si misura nel valore della persona e dal numero dei suoi disaccordi con morali e codici istituiti... poiché la miseria non è un destino e nemmeno l’esclusione un’eredità, la sua catenaria di immagini rompe le vetrine dell’illusione, mostra le emorragie spettacolari della società consumerista e sostiene (senza tanti fraseggi estetici) che l’avvenire appartiene alle periferie della terra.
Ad entrare nelle fotografie in bianco e nero dei bambini Rom di Napoli (Giugliano) o affacciarsi alla finestra a colori sulle strade di Buenos Aires... possiamo leggere momenti nei quali la precarietà, la paura, l’ingiustizia e le chiacchiere sullo “Stato sociale” sono aboliti... la fotografa si accosta ai bambini Rom in punta di cuore, senza un’ombra di sociologismo o di scoop giornalistico... il campo Rom di Giugliano dato alle fiamme da solerti cittadini dell’ordine mafioso (che fa buoni affari con i rappresentanti dello Stato) è visto sotto traccia e sono i volti/corpi dei bambini che fuoriescono con forza dalle miserie di un delitto annunciato. L’ambientazione è occasionale, minore della ritrattistica infantile e dei gesti, sguardi, atteggiamenti che questi bambini portano addosso. C’è dolore eterno e anche felicità possibile in questa iconografia dell’accoglienza. I bambini dietro il vetro, i piedi nudi, sporchi, accanto a un martello e un volantino, la bambina bionda, scalza, che attraversa una pozza d’acqua, la forza degli occhi di un bambino/a buttati contro il cielo... restano a testimoniare che la verità non può mai essere quella dei linguaggi dominanti ma il conseguimento della secolarizzazione delle lacrime. Il bello, come il giusto, è qualcosa di scomodo e quando il bello si riconosce nei lamenti umani, c’è un po’ più amore nel mondo.
L’odore del vero che sborda dalle fotografie di Buenos Aires forse è meno avvincente della visione dei Rom a Napoli... rimanda, credo, ai lavori che ha fatto sul- l’inquinamento delle terre napoletane, fabbriche deserte, case abbandonate, frammenti di muri, passaggi dell’uomo nel mondo (non esenti da piccoli compiacimenti estetici)... tuttavia nelle strade di Buenos Aires la fotografa riesce a cogliere con grazia la quotidianità dell’ordinario... non è poco... in quella radiosa calma si coglie la tempesta che c’è sullo sfondo. I bambini che giocano nelle strade, i panni stesi alle finestre di case popolari, i segni dell’amarezza di un popolo ancora scosso da dittature e costrizioni, la forza della ragione contro il diritto della forza delle Madri di Plaza de Mayo... fotografati con colori accesi rosso/blu... lasciano presa- gire che ogni potere si regge o crolla quando crede di risolvere il proprio declino con la diplomazia dei fucili e delle galere.
Le inquadrature inclinate, le sfocature, le allusioni al desiderio di esistere sparsi nel reportage della Di Pietro, parlano del bene comune da conquistare... la fotografia così fatta porta in sé la nobiltà del comunicare e si accompagna al romanzo autobiografico che ne consegue (come l’ombra della fotografa stagliata su un palazzo rosso, dice)... e solo se volgiamo lo sguardo della scatola magica al nostro interno possiamo scoprire la libertà, il giusto, il bello o il buono che ci circonda. Le fotografie di vita comune di Buenos Aires sono messaggeri di speranze mai sopite e convergono verso la risoluzione di un tempo condiviso che appartiene agli ultimi di ogni società. In queste immagini nude, fin troppo semplici, il richiamo a una vivenza più giusta comincia a muoversi, il presente e il passato si intrecciano e anche i morti per la libertà di un popolo riaffiorano nella nostra immaginazione.
Il ritratto di Alda Merini, più di altri, è sentito, e per noi che l’abbiamo conosciuta ed amata1 restituisce alla storia non solo la grandezza della sua poesia ma anche la sensibilità di una donna avversa ad ogni potere e ad ogni autorità che non sia quella dell’amore, della passione, della bellezza, e che della politica comprende solo una cosa: la rivolta. Alda è colta nell’intimità della sua tenerezza, nel riassunto di un’anima fragile, nella dignità conquistata e nel volto addolorato mostra tutto l’accaduto (e il non accaduto) del suo stupore in pericolo. La disperazione non c’entra, è cosa per letterati ubriachi di successo... la follia non si cura, si accetta e una volta iniziata non finisce più. Le persone libere volano, quelle addomesticate sognano di volare.
A ritroso. L’avvenire della catastrofe è già qui. La barbarie è accessibile a chiunque... ci apprestiamo allegramente a disfare secoli di civiltà... eretici di ogni eresia non si diventa né per risoluzione né per decreto... l’eretico è un incendiario dell’immaginario, non crede che un sistema religioso, economico o politico valga la pena di essere abbattuto o rinnovato: “Porsi al centro di una rottura è tutto ciò che chiede. Odiando l’equilibrio e il torpore delle istituzioni, le scuote per affrettarne la fine” (E.M. Cioran). Tutto vero. I momenti comunitari di raffinatezza nascondono un principio di vita: niente è più forte della bellezza, della giustizia e della dignità...
Qui abbiano scritto: "La sovranità della poesia liberata da Alda Merini induce all'accoglienza e permette di disimparare a far male agli altri... mostra che ogni piacere vuole il colpo di coltello della coscienza insorta e dipana una filosofia del rispetto che porta alla riconciliazione dell'esistenza più dura, più estrema, più marginalizzata con l'innocenza del divenire". La distruzione degli impostori della religione, della finanza, della politica o dei saperi porta in sé anche quella dei pregiudizi. Ai terrori di prima qualità preferiamo tutte le forme di disobbedienza civile.
Più si entra in intimità con gli ultimi, gli esclusi, i “quasi adatti”... più ci si allontana dai lebbrosari della partitocrazia. Verità, giustizia, bellezza sono sconosciuti alla politica predominante... buona è la società che agevola l’espansione culturale, politica, religiosa... cattiva quella che ostacola, reprime, violenta la bellezza di vivere tra liberi e uguali. La storia di un popolo e di una nazione si riassume nell’incapacità a comprendere le necessità reali delle persone, invece di celebrare i fasti di profeti, ciarlatani, pagliacci dei mercati globali (conniventi con politiche e mafie finanziarie) ai quali importa solo la manifestazione della propria potenza, la storia dell’uomo in libertà è tutta ancora da scrivere.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 23 volte ottobre 2013.


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