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Teatro dei sensi 2020

Dopo di Gabriella Salvaterra: un teatro dei sensi, un palcoscenico incredibile mai visto prima che non si può descrivere a parole e provarci significa restare in silenzio per giorni, fino a scovare nella profondità di mille riflessioni.

1999, è questo l’ultimo anno dove l’artista è stata indispensabile collaboratrice di Enrique Vargas, il maestro colombiano del Teatro de Los Sentidos, colui che ha diffuso in Europa spettacoli cui si partecipa con i sensi, ognuno viaggiatore unico e solitario.
Presenze silenziose che vagano dentro ai labirinti delle proprie emozioni, toccando stoffe, immagini, sentendo odori e palpando, come ad esser ciechi, oggetti e corpi, per stanare sensazioni.
Successe qualche anno fa con Il filo di Arianna al Funaro di Pistoia e, riaccade quest’anno con uno spettacolo tutto di Gabriella.
“Qui è dove tutto comincia…” racconto l’artista sfiorando le crepe del suo piatto, “c’è chi sostiene che a tutto c’è rimedio, io non credo che sia proprio così, ci sono cose che sono irreparabili. O diventano irreparabili. Mentre per riparare c’è un tempo, un tempo giusto.”
Queste le parole svelate allo spettatore che inizia il suo viaggio, ignaro che sta per percorrere il proprio tempo e, trovare nella sua memoria quella crepa, ancora aperta mai rimediata, forse ancora tagliente o forse pronta ad essere curata.
Tutto si congela in quell’attimo che attraverso i sensi ci porta nella parte più profonda della nostra intimità, intimità come dramma e bellezza d’incontrare sé stessi e l’altro, intimità come esperienza emotiva, da lì a poco, in quelle stanze di “analisi” dove si incontrano corpi, anime.
Gabriella Salvaterra con la sua creazione teatrale ci catapulta in quell’intimità che ha il sapore di una dimensione estetica dell’anima, quasi a voler allontanare quell’anestesia dei sentimenti, di un tempo che viviamo dove i desideri sono fustigati, i nostri corpi bloccati e Dopo, inevitabilmente, ci ricorda il tempo che stiamo vivendo dove una pandemia piombata nelle nostre vite, ha messo tutto in discussione.
Si parla di amore, di distanze da annientare, prima di tutto con la propria anima, ripensando ad un tempo che sia di desiderio e di vita.

Tutto avviene percorrendo corridoi e stanze.
La prima che si incontra è quella piena di valigie, vecchi calendari, dei palloni di cuoio sbucciati dal tempo, vecchi mangianastri, insieme alla percezione uditiva e olfattiva (Giovanna Pezzullo, Pancho Garcia e Stephane Laidet) di quel tempo andato, tanti piccoli oggetti che raccontano giorni e molteplici quotidianità.
Ne segue subito un’altra, fatta di stoffe bianche, floreali, dalle tonalità tenui che formano pieghe ricreando una cucina, luogo puro e incontaminato dell’adolescenza.
Tanti piatti bianchi a raccontare le voci dei giorni vissuti “non entrare in cucina che ho appena passato lo straccio”.

Un corridoio di specchi conduce il corpo smarrito in tumulto di ricordi, fino a giungere a quella tavola apparecchiata di crepe.
E’ quella la stanza dove tutto inizia fatalmente. La bellezza dell’imperfezione prende voce, le ferite si mostrano.
Si scopre il vuoto dentro sé stessi e l’artista nel suo silenzio ci ricorda come accarezzarlo, smembrarlo, girarci dentro e intorno, connetterlo, dargli vita, forza.
Osservare il vuoto da diverse angolazioni, fino a riconoscergli un ruolo, il dentro e il fuori, la condanna e la possibilità, che con l’arte si dilata attraverso i sensi.

A quel punto lo spettatore, che mai è tale, non può far altro che chiedersi se colmare un vuoto o viverlo e respirarci dentro.
Ed eccole, le molteplici ciotole, pentole, recipienti in cui cadono gocce d’acqua, messe lì sul pavimento per contenere i vuoti o per riempirli con la forza ancestrale dell’acqua.
Citando Heidegger “è il vuoto ciò che, nel recipiente, contiene il vuoto, questo nulla nella brocca è ciò che la brocca è come recipiente, che contiene”.
E’ questo il momento dello spettacolo dove ognuno si sente invaso non più da ciò che viene recitato sul palcoscenico bensì, diventa spettatore di se stesso intorno allo spettacolo, come direbbe Roland Barthes, punctum dell’opera, “un punto tra i punti, smarrendosi tra quello che ancora dovrà accadere”.

E di acqua c’è n’è tanta nella stanza che segue, completamente allagata, dal soffitto cade ininterrottamente su un letto vuoto, dove ho scegli di coprirti o di di danzare sotto la pioggia, o resti fermo, o continui e l’attraversi tutto d’un fiato.

Quella che segue è la camera chiara, la stanza più dolce dove lasciare sgretolare le proprie emozioni, delle lampade con luce soffusa, illuminano scatole e cassetti pieni d’acqua dove galleggiano vecchie fotografie, in bianco e nero, colori sbiaditi che, ad osservarle, potrebbero essere quelle custodite nella soffitta della nostra casa.
In ognuna si può ritrovare la nostalgia del proprio vissuto e proprio grazie a quel vuoto, prima avvertito, la vita ricomincia a pulsare, la fragilità diventa forza, spinge al conflitto, alla rivolta, ispira il poeta.
E’ forse questa la stanza più malinconica perché parla del tempo, della necessità di renderlo immortale in tutta la sua bellezza e fragilità.

Usciti dalla scatola magica, ci si ritrova nella stanza di luci e ombre.
Tra i panneggi di nuovo bianchi ondeggiano carillon senza musica, giostre gioiose.
E’ questa la stanza delle carezze, dove sorrisi e lacrime diventano un senso di pace.
E’ la stanza dell’ascolto, di se stessi e dell’altro.
La stanchezza qui si accomoda su un cuscino a terra, dinanzi ad una valigetta di ricordi, dove ad aprirla puoi trovare una scarpetta, una spilla da balia, un vecchio pettine, matite o altri oggetti nostri o di qualcun altro e lì, vicino alle mani, un foglietto bianco che invita a lasciare le proprie impressioni.
E’ in quel momento che, personalmente, ho capito di aver vissuto circa quaranta minuti estraniata dal mondo, a chiedermi se quel turbine sensoriale mi immobilizzava alla malinconia, o mi spingeva verso qualcosa di nuovo.

Quella parola “Dopo”, scelta dall’artista per il suo spettacolo , era molto più chiara, quell’indagine sulla rottura e la riparazione spiegava tutto il suo senso, l’artista è stata capace di creare un’installazione sensoriale abitata, una “casa” per percorrere il dolore, la separazione e tutto ciò che ci tocca incessantemente.
Un percorso in solitudine che rimanda alla parte più intima della poesia, ci sono solo piccoli momenti che ci ricordano di non essere soli, quando si incontrano figure (Loredana D’Agruma e Elena Ferretti) che con dolcezza sostengono emozioni e sentimenti, come angeli del nostro inconscio che l’artista, con estremo rispetto, adopera tra buio e luce.
Da un piatto rotto dove tutto ha inizio, si cammina in un quasi fiabesco paesaggio dove si viene raccolti e accolti e, infine, lasciati andar via, prima spinti a ritornare bambini poi, ad attraversare vuoti e infine, a restare impigliati tra profumi, odori e suoni… nella bellezza dell’arte e nella magia della propria esistenza (installazione sensoriale abitata di Gabriella Salvaterra / SST Sense Specific Theatre). 

Lo spettacolo di Gabriella Salvaterra è un labirinto mai percorso prima, dove si fanno i conti con memorie senza contorni, il mondo che c’è fuori sparisce.

L’artista stessa racconta “qualcosa negli ultimi mesi si è rotto dentro di me, come per moltissime persone, gli eventi mi hanno colpita in maniera profonda e personale… sono dovuta tornare al punto di partenza, ho dovuto e voluto guardare con occhi nuovi la rottura, quelle interruzioni che ci costituiscono come individui e come società. Ho sentito che questo nuovo sguardo era più forte, più centrato, addirittura forse più sereno. Sembra che quando si rompono le certezze, emergono silenzi che vale la pena ascoltare e attraversare, verso quello che potrà accadere… dopo.”

Trovare le parole per descrivere Dopo è sembrato quasi superfluo, a paragone di silenzi cosi pieni ma, dinanzi alla grandezza del teatro, di quest’opera d’arte, solo il silenzio non poteva bastare.
E così, in quell’ultima stanza, dopo una piccola lampada e un vecchio telefono, un filo invisibile ha ricucito ogni ferita, la terra spinge alla vita, trovandoci in ogni crepa, un filo d’erba pronto a rinascere.
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